mercoledì 31 luglio 2013

Cara Giovanna...


 

...la notizia mi è arrivata ieri..ma tu eri già partita, per un viaggio senza ritorno, in un luogo dove la tua dimensione di donna  affettuosa e generosa, finalmente sarà esaltata...

L'ultima volta che ci siamo sentite,  mi hai chiesto di incontrarci ancora, però poi, quando ho tentato di farlo, mi è stato risposto che stavi troppo male per ricevere gente. La vita è stata dura con noi e, alla fine della nostra amicizia, abbiamo condiviso anche la malattia, ma con te è stata ancora più cattiva…
Quando venni più volte a trovarti in quel reparto d’ospedale, ti scusavi se eri stanca, ma comunque eri felice di vedermi e continuavi a parlare  e scherzare, ti preoccupavi di farmi sedere per non lasciarmi in piedi… poi riuscivi ad alzarti per una passeggiata lungo i corridoi…non sarebbero gesti strani se non fosse che tu eri in quel letto con la vita che se ne stava andando e io ero quella “sana” che veniva a farti un po' di compagnia. Sai, non immaginavo che sarei stata così male per la tua morte. In fondo era una cosa a cui ero preparata, o almeno così credevo. Invece ho scoperto che a questo non si è preparati, non così tanto da non soffrire. Ti volevo bene ma non pensavo che andandotene mi avresti fatto così male.
Mi hai fatto proprio un brutto scherzo, lo sai?
Ci sono tante altre cose che vorrei scriverti, tanti piccoli episodi che vorrei ricordarti, anche per far sapere a tutti quanti che persona fossi. Starei qui delle ore, perché se è vero che non abbiamo passato tanto tempo insieme, è anche vero che tutti i momenti che abbiamo condiviso, sono stati momenti importanti delle nostre giovani vite, prima, e mature dopo, quando  la sofferenza ci ha unite di più… In tutto questo, mi consola la certezza di saperti in un posto migliore,  sereno, dove non esistono sofferenza e tristezza, cattiveria e amarezza. Dopo tanta sofferenza, ti sei meritata un posto così, dal quale veglierai su tutti noi.
Sono sicura che un giorno ci rivedremo e potremo scherzare un po'… proprio come una volta.
Grazie per avermi donato la tua amicizia.

Ciao, Giovanna. TVB

domenica 21 luglio 2013

Non c'è altro da aggiungere...


Leggo, approvo  e pubblico questo articolo del solito Michele Serra.
"MI SCRIVE UN ORANGO: “NON TOCCATE CALDEROLI”
«Io zono Wala Paipan quarto, principe ereditario del Regno degli Oranghi, attualmente con zede vacante a cauza della diztruzione ziztematica delle forezte dell’Asia meridionale e delle grandi izole e penizole zottoztanti. Mi zcuzo per l’italiano imperfetto, noi oranghi ci ezprimiamo normalmente in zetico, un idioma arboreo che lazcia evidenti tracce anche quando uziamo le altre lingue. A meno che voi pozziate darmi un aiuto inzerendo il voztro correttore automatico, grazie…. Così va decisamente meglio.
«Vi scrivo in merito alla appassionante questione etnica sollevata da un emerito rappresentante del vostro Paese, il vicepresidente del Senato Calderoli, che ho l’onore di avere personalmente conosciuto durante una sua visita ufficiale nel Borneo. Gli ho insegnato a mangiare con le posate e a sbucciare le banane prima di ingoiarle intere, e abbiamo molto simpatizzato. Mi occupo per diletto di zoologia (ma il mio vero ramo, al quale sono appeso anche in questo momento, è la botanica) e senza la pretesa di trarre conclusioni definitive posso dirvi quanto segue.
TRA I GRANDI PRIMATI , dotati di facoltà diverse ma tutti situati sui gradini più alti della scala evolutiva (in ordine decrescente: l’orango, il gorilla, lo scimpanzé, l’uomo) il solo nei confronti del quale la scienza serba ancora il dubbio di una effettiva inferiorità è homo padanus, una piccola tribù dell’Europa meridionale. Poiché, come tutti gli esseri senzienti e civili, detesto fare affermazioni discriminanti, mi sento in obbligo di spiegarmi meglio. Mentre noi oranghi sappiamo di essere oranghi, i gorilla di essere gorilla, i francesi di essere francesi, i congolesi di essere congolesi, homo padanus è convinto di appartenere a una specie inesistente: appunto il padano. In psicoanalisi, diremmo che si è di fronte al classico fantasma paranoico. Un antropologo preferirebbe parlare di simulazione etnico-culturale, con pochissimi precedenti nella storia: il più noto riguarda gli elefanti di Annibale che, dopo un mese di attraversamento delle Alpi, sostenevano di essere maestri di sci della Val di Fassa. Noi oranghi preferiamo pensare, secondo i dettami della nostra cultura olistica e della nostra natura cordiale, che i padani siano semplicemente “compagni che sbagliano”, cioè scimmie proprio come noi, come gli italiani, come i congolesi, però inconsapevoli della loro identità e del loro destino, che è comune a quello di tutte le grandi scimmie.
NOI GRANDI SCIMMIE siamo destinate a condividere lo stesso habitat. Anche se la specie meno intelligente tra noi, l’uomo, è impegnata soprattutto a distruggerlo. Ho visto delle fotografie della terra dove vivono i sedicenti e secredenti padani. Consiste in una serie ininterrotta di rotatorie stradali e capannoni. A perdita d’occhio. La sola specie vegetale tutelata è il cipresso dell’Arizona, una orribile aghifoglia bluastra, dall’aspetto plasticoso, che viene usata per fare tristi siepi di tristi villette. Il padano tipico, dunque, nasce e cresce tra una siepe di cipressi dell’Arizona e una rotatoria stradale: come fa a diventare normale? Prima di criticare l’aspetto fisico, effettivamente impressionante, del signor Calderoli o del signor Borghezio, riflettete sulle spaventose condizioni ambientali nelle quali sono cresciuti. Perfino io, che ho portamento regale, braccia in grado di sradicare un albero, genitali enormi, la bocca larga più di un metro e un folto pelame color ruggine che adorna tutto il corpo, se fossi vissuto tra quelle rotonde stradali e quei capannoni sarei ridotto come loro: un fantoccio pallido e sovrappeso con un forte complesso di inferiorità nei confronti delle altre scimmie.
Vi invito, in conclusione, a non discriminarli. Non è di disprezzo che hanno bisogno, ma di soccorso e di cure. A voi il tipico saluto augurale degli oranghi: zoa-zuu-zeka. Che vuol dire: a ognuno il suo albero, purché non sia un cipresso dell’Arizona».
(Michele Serra)

giovedì 11 luglio 2013

Eravamo 24 quelle della V A


Ieri è successo di nuovo: dopo 16 anni ci siamo ritrovate ancora, per stare un po’ insieme, per festeggiare il nostro 60mo compleanno, così come nel 1997 ci incontrammo per festeggiare il 25mo anno dalla maturità. Sto parlando delle compagne di classe delle scuole superiori:  eravamo 24 quelle della 5^A nel lontano 1972, ma ieri eravamo in 10, abbastanza per recitare un amarcord simpatico, per aggiornarci sulla nostra vita, per scrutare l’una negli occhi  dell’altra i cambiamenti avvenuti, e  non solo fisici… ad ognuna di noi la vita ha riservato qualcosa di bello e qualcosa di brutto, momenti felici e momenti tristi, ma abbiamo resistito tutte: ognuna di noi ha ancora a fianco l’uomo che si è scelta 40 anni fa; ognuna di noi ha dato tutta se stessa per i figli, qualcuna è diventata nonna e vive questa condizione come un miracolo, altre ancora non sono pensionate… abbiamo riso delle nostre (inevitabili) rughe, dei chili di troppo di qualcuna, degli acciacchi dell’età…però tutto con molta ironia e consapevolezza degli anni che inesorabilmente passano…

 

sabato 6 luglio 2013

Il rione Sanità



“La fine del giorno”: è questo il titolo del libro che ho letto in poche ore e ne  consiglio la lettura a quelle persone che stanno vivendo il calvario della malattia, quella bestia nera che ti entra dentro il corpo e ti devasta l’anima. Più che un libro è un’inchiesta giornalistica, l’autore, infatti è Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della sera: egli stesso ha vissuto il calvario, ma in veste di marito, in quanto la moglie malata è deceduta dopo che le avevano diagnosticato quel “male inoperabile e incurabile”. Perché mi ha interessato questo libro? Perché in esso ho ritrovato scritto nero su bianco tutte le verità, le sensazioni, le emozioni, le considerazioni, le osservazioni che io stessa ho fatto da quando frequento il “rione sanità”…
Descrivo le parti del testo in cui mi sono ritrovata in pieno… 
(in corsivo frasi integrali del testo)
A cominciare da quando annunciano la diagnosi: senti montare un’angoscia indicibile, senza respiro, una sensazione di stordimento mai sentita prima… un fulmine mi avrebbe spaccato di meno in due… ecco, queste sono le sensazioni che vive un marito, immaginiamo cosa e come può sentirsi chi è il destinatario inerme  di un messaggio terribile! Poi, però, scatta la molla, un miracolo o forse un fiero atto di ammutinamento morale, il rifiuto di farsi annichilire come persona integra, non riducibile all’unica e totalizzante condizione di inferma incapace di vivere… e chi ti può aiutare in questo è il congiunto più vicino, il marito che diventa il tuo custode, l’accompagnatore, l’autista, il consolatore, l’infermiere, il badante, la spalla, l’aiutante in campo… la sua vita cambia agenda, scandita da una catena interminabile di visite in ospedale, cliniche, centri medici, ambulatori, laboratori di analisi… si familiarizza con termini astrusi come cisplatino,crizotinib,alimta,fluoracile e una miriade di altri esotici nomi, si impara ad interpretare analisi ed esami diagnostici nella speranza di trovare in essi la speranza, no, non è vero… è tutto a posto, i valori sono buoni…epperò, guarda qui com’è piccolo, possibile che possa causare tanti danni??? Un fulmine ti avrebbe spaccato di meno in due…
Sono gli sguardi dei medici onesti, premurosi nelle cure, attenti, delicati, sensibili, a rassicurare, a volte sgomenti, sconcertati nel dare la brutta notizia, rattristati per se stessi e per i loro pazienti, sembrano i primi a dolersi per il decorso di una malattia volubile, stramba, perfida.
La vita del malato e di chi gli sta accanto cambia completamente, è come se fosse senza futuro, perché non sai mai se ci sarà una guarigione completa o se, anche a distanza di anni, il male tornerà a  morderti e, allora, il progresso, la scienza, il benessere non sono generosi. La ricerca lavora accanitamente e gli studi attuali sono concentrati sulle mutazioni genetiche e l’era della chemioterapia, quella dei farmaci che per distruggere le cellule maligne annientano tutto ciò che si trovano davanti a sé, verrà archiviata … ma dobbiamo aspettare un po’ di anni, dicono gli oncologi, ma intanto quante persone moriranno fino a quando non si scopriranno vie alternative per guarire definitivamente da questo male incurabile?...ma poi, perché incurabile? Ci sono milioni di persone che ce la fanno, quelle con un sistema immunitario più forte, quelle che resistono a tutte le “bombe” chemio – radioterapiche, allora, perché quando muore qualcuno si scrive o si dice “è venuto/a a mancare per un male incurabile”, togliendo anche la speranza a chi soffre ancora e spera in una guarigione?... è perché chi non ce l’ha la malattia, chi non la vive sulla propria pelle, non può capire come anche le parole possano far male più dello stesso male. Chi non ce l’ha il male addosso, tende pure a colpevolizzare chi ce l’ha:insistere sulle virtù terapeutiche di un, come si dice, "corretto stile di vita". Si batterà il cancro con un migliore e più sano stile di vita, un’esistenza meno incline al disordine, più pulita, con più moto e meno fumo, meno depravata sul piano alimentare… si parla del futuro e delle norme salutistiche per non ammalarsi, ma implicitamente, spostandosi al presente, l’accento salvifico sul "corretto stile di vita" che fa mostra di sé in tutte le rubriche più o meno intitolate "Il medico risponde", sta ad indicare che chi adesso è malato di cancro non è altro che il prodotto di uno stile di vita sbagliato… Peggio per te! Adottando uno stile di vita scorretto te la sei cercata…
E magari è anche vero, per carità! Ma è così scontato che ci voglia una brillante laurea in medicina, con specializzazione in oncologia, per osservare che se si fuma e non ci si muove di più si sta peggio e si rischia di più? Questa banalità l’ho pensata persino io, per quanto ovvia. Ma tutte queste colossali ricerche, tutta la mobilitazione di ingenti somme, tutte queste èquipe agguerrite, questi stuoli di Nobel, questi brillanti team, queste forze d’assalto, questi ricercatori e scienziati impegnati da decenni negli studi e nella clinica, ci vuole tutto questo esercito di ingegni in marcia per approdare alla saggia esortazione di mangiare più sano, farsi una corsetta o una salutare camminata  e buttare le sigarette? No, solo per far sentire in colpa il malato, si riempiono la bocca con “lo stile di vita”, detto con quell’aria tronfia di chi la sa lunga e invece non sa niente. Bravi ad elaborare strategie antifumo, bravi a fare i terroristi sugli OGM, bravi a linciare le polpette ikea. A trovare un rimedio vero contro il cancro, no eh? un po’ meno bravi…è il fallimento terapeutico… e quanti bambini si ammalano o persone che fin qui hanno avuto un “corretto stile di vita”?
Entrare nel “rione sanità” significa  toccare con mano la delusione: delusione per una medicina che si crede onnipresente e che con questo male svela tutt’intera la propria impotenza.
… constatava quanto fosse diffusa l’ossessione del Grande Complotto, la certezza morale di una congiura dei camici bianchi e delle case farmaceutiche… la convinzione che vi siano “troppi interessi” che occultano la verità… vedeva che c’erano troppe persone che davano per scontata l’esistenza clandestina di una pillola già da ora efficace, e chissà da quanto nascosta con delittuosa noncuranza in qualche cantina sotterranea delle losche multinazionali del farmaco, in combuttta con medici compiacenti e abituati a lucrare sulla somministrazione di medicine dannose… una bieca "dittatura della chemio"
Ecco cosa può fare la delusione, quando ci si sente traditi da chi non ha saputo mantenere una grande promessa…

NB: il rione Sanità è un quartiere popolare di Napoli ad alta densità camorristic


lunedì 1 luglio 2013

Post/non post


Accendo il mio computer e apro l’editor di testi per cominciare a buttare giù un mio pensiero … e mò?... che succede?...non so di che cosa parlare oggi, forse perché ho scritto già su quasi tutti gli argomenti, però  ho voglia di scrivere.
Gioco con i tasti del mio pc alla ricerca di un argomento da trattare … nulla! oggi ho voglia di rimanere vaga, vuota, superficiale, non ho voglia di entrare nel mio profondo, meglio di no…
Continuo a scrivere solo per condividere il fatto che ci sono ancora,  che sono presente.
Mi guardo attorno per cercare un’ispirazione, ma in realtà non voglio approfondire.
Scrivo piccoli pensieri e brevi frasi.
Non ha importanza, non serve scrivere sempre in merito a qualche cosa, a volte è sufficiente scrivere.
Un ottimo sfogo, un passatempo ed un aiuto per scacciare i  pensieri spettinati che in questo momento affollano la mia mente.
Tra una frase carpita per sbaglio dal mio televisore acceso più per abitudine che per altro, continuo questo non del tutto inutile post, che mi aiuta anche a proseguire questo esercizio di sopravvivenza mediatica.
Guardo fuori dalla finestra, il sole (finalmente si rivede!) che illumina la mia stanza é uno spettacolo, colori vivi, luce solenne e calore che mi avvolge in un abbraccio confortevole e rassicurante.
Appaiono disegni di ogni forma dipinti dall’ombra dei rami degli alberi: disegni di ogni tipo, ombre che giocano e che mutano in continuazione muovendosi in un balletto che sembra non avere mai fine.
Mi fermo, penso, non so che scrivere, ma voglio farlo, voglio solo continuare a scrivere di getto, voglio continuare a distrarmi, mi serve.
Ho iniziato a scrivere su questo blog (che adoro) per esprimere ciò che penso, ciò che sono, per condividere i pensieri di una persona qualunque che nella propria quotidianità tenta di cogliere al meglio ciò che la vita gli riserva ogni giorno. Per raccontarmi e per raccontare le emozioni che mi passano dentro, per cercare di carpire i pensieri di chi mi legge attraverso i loro commenti, per descrivere ciò che sono e per fare una sorta di diario di bordo,per ricercare quei valori che la frenesia giornaliera ci ruba sempre più, per ritornare ad essere un po’ più bambini, puri e genuini.
Ora basta, non ne ho più voglia. Voglio smettere e terminare questo non post.
Voglio concludere questo mio pensiero quotidiano cercando la consapevolezza che anche se non ho parlato di nulla, sia comunque riuscito, in qualche modo, a trasmettere un po’ del mio “io”, del mio essere viva, contribuendo a suscitare un qualche tipo di emozione, di riflessione.
Come me c’è tantissima altra gente che ha voglia di raccontarsi e di raccontare ciò che è, ciò che vuole e che vorrebbe. Ne sono convinta.
Lo so, me lo dicono, lo vedo. In tanti hanno voglia di essere e di mostrarsi, di mostrare i propri stati d’animo. Non hanno tempo, si vergognano, o non ci riescono.
Provateci lo stesso.
Non nascondetevi, buttate quell’assurda maschera, non serve, è inutile e dannosa.
Rimaniamo accesi, rimaniamo vivi, continuiamo a guardare dentro noi stessi, non facciamoci sconfiggere.
Non siamo automi.
Restiamo umani